Al Cinema Lumière (a proposito, auguri in ritardo per la festa di ieri, 25 anni portati bene) è in corso una retrospettiva sulla Nouvelle Vague, un modo per rivedere alcuni film molto belli, vederne di mai visti e rifletterci sopra a distanza. Giovedì doppio Godard con Vivre sa vie (Questa è la mi vita, Francia 1962) e Une femme est une femme (La donna è donna, Francia 1961), mentre venerdì Le feu follet (Fuoco fatuo, Francia-Italia 1963) di Louis Malle, preceduto dall'inguardabile Le chant du styrène di Alain Resnais, un documentario avanguardista sulla plastica di cui "il tacer è bello".
La nota comune resta la perizia tecnica della regia, accurata e manierista (specie Godard, come nella sequenza della revolverata di Vivre sa vie), ma le differenze restano enormi: il vero denominatore comune dei registi della Novelle vague pare essere solo l'adesione alla critica cinematografica militante e la volontà di incidere sulla storia del cinema e di rivivificarlo: per raggiungere questo fine, però, ciascun regista agisce nel modo più personale e antidogmatico per eccellenza (e il riferimento a Dogma 1995 e tutt'altro che casuale). Malle (e Resnais, di cui dirò meglio dopo il film di stasera) lavora su un piano più freddamente intellettuale e filosofico, raccontando il premeditato suicidio del protagonista alcolista e malato d'amore con sofistiche inquadrature (mentre lo spettatore in sala soffre le pende dell'inferno, nel frattempo): sofistiche - ma non prive di bellezza - come quella al party in casa di amici, dove il suo sfogo da ubriaco è accompagnato dal ritmo franto delle inquadrature, o, all'inizio, la scena nell'hotel con l'altra donna amata (che ricorda l'incipit di Hiroshima mon amour), o ancora l'aggirarsi del protagonista nella sua stanza presso la casa di cura attraverso le foto della moglie e dell'amante ed attraverso tutti i suoi ricordi.
I due film di Godard, invece, pur nella loro diversità, mantengono un tasso tecnico decisamente più alto (proprio di un tecnico maniacale della moviola): in entrambi la scena è dominata da Anna Karina, che ha l'onore della pointe finale in Une femme est une femme (con gioco di parole annesso). Questo film, tra l'altro, mi sembra quasi una meteora nella seriosità della produzione del regista, dato che sceglie il registro comico da commedia musicale: divertentissimi sono l'invenzione di una grammatica amorosa tramita una combinatoria di titoli di libri (preludio a futuri giochi linguistici del Godard più criptico), il lancio dell'uovo al tegamino (da slapstik), i battibecchi tra i due innamorati e l'ingresso di Belmondo nel triangolo amoroso. Sempre comiche e metacinematografiche sono anche le sue battute su Au bout de souffle in televisione e il dialogo con Jeanne Moreau sul contemporaneo Jules et Jim.
Un processo analogo, ma su un registro più impegnato e serio, si verifica anche nella celeberrima scena di Vivre sa vie, quando la protagonista entra al cinema a vedere La passion de Jeanne d'Arc di Dreyer e si assiste ad una sovrapposizione tra le due protagoniste. O ancora nel passaaggio di fronte al cinema in cui proiettano proprio Jules et Jim. Nel complesso è un film a emozioni volutamente alterne, in cui momenti commoventi (come l'interrogatorio alla polizia e il finale) sono intervallati a squarci documentaristici sulla vita di una prostituta parigina. (La stessa disomogeneità si riscontra, tra l'altro, anche in Le mépris.) Film, in ogni caso, molto belli nelle loro differenze e nel loro voler essere sperimentali a tutti i costi.
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